IL LAVORO COME PROBLEMA FILOSOFICO   
da Aristotele ad Adam Smith
A cura di: Virgilio Cesarone
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Lezione 8

Le conclusioni di Scheler

Proprio in base alla teoria di Schopenauer si sviluppa la teoria di un economista tedesco contemporaneo di Scheler, Reinhold. Questi, seguendo il pessimismo schopenaueriano, teorizza un sistema liberale dell’economia, dove si arriva alla medesima visione del liberalismo e delle teorie marxiste. Questo perché con la svalutazione della razionalità dei sistemi di fini oggettivi che conducono il lavoro, si arriva ad attribuire a questo un valore che altrimenti non avrebbe. Sicuramente esiste una differenza con la teoria di Smith. L’economista inglese infatti intende mostrare che per lo sviluppo economico non vi è necessità di uno stato forte che influenzi il mondo del lavoro, mentre nella teoria di Reinhold si intende mostrare l’impossibilità di una forma tale di stato.

Una sorta di lasciar-essere è presente in entrambe le visioni, ma nella prima è dovuta alla fiducia nell’autoregolamentazione del sistema del lavoro, che da solo porterebbe alla ottimizzazione dei risultati; nell’altro caso si ritiene inutile ogni intervento, poiché è impossibile il lasciare andare. Se la prima rappresenta per Scheler una forma di liberalismo “nascente”, la seconda visione è quella “decadente”. Certo è che Scheler mostra tutta la sua perplessità di fronte ad un tentativo di costruire una teoria economica sulla base della filosofia di Schopenauer. Questo non solo perché la filosofia di Schopenauer sembra, con il suo invito al rifiuto della volontà, il filosofo più lontano per una risoluzione dei problemi provenienti dall’attività economica, che si basa appunto su di un atto di volontà. Ma anche perché Schopenauer nella sua filosofia ha negato questi problemi come tali.

Le figure principi della filosofia di Schopenauer sono quelle che hanno abbandonato la volontà e con questa ogni attività economica, come l’asceta. Se costui è il modello, per il suo abbandonare il mondo, allora non c’è assolutamente spazio, in questa visione, per una teoria economica, per un pensiero sul lavoro, attività questa che vede nel mondo il suo principio ed il suo sviluppo.

Arrivati a questo punto Scheler tira le conclusioni della propria riflessione. L’esame del problema ha messo in mostra che quell’attività denominata “lavorare” in sé non è portatrice di alcun valore morale. Tutto questo si scontra contro l’opinione corrente, pronta a considerare il lavoro come portatore di moralità. Il risultato che Scheler mostra invece è quello di un lavoro che è un’attività in sé cieca, quindi moralmente indifferente. Il carattere di bontà o di cattiveria viene fornito al lavoro da condizionamenti esterni, da un sistema oggettivo di fini che regola e governa dall’esterno l’attività lavorativa.

Ma a chi appartengono questi fini oggettivi? A tale domanda il filosofo tedesco risponde affermando che essi emergono a partire dalla famiglia, attraverso l’organizzazione, la comunità e lo stato, permeando il diritto stesso. Quindi non è un singolo colui che forgia tali fini. Si ricordi come all’inizio Scheler ha sottolineato l’impossibilità ormai per un singolo di trasformare regole già condivise. È per questo che egli ritiene che tale capacità formativa appartenga a tutti gli uomini. Però questo non significa che egli sia favorevole ad una indifferenziazione tra soggettivo ed oggettivo. Il liberalismo ha fatto proprio questo errore, credendo di vedere nell’impresa personale, soggettiva, un modo di sicura ottimizzazione della situazione oggettiva. Come abbiamo visto Scheler ritiene che invece la persona debba tenere sempre distinti i due ambiti, quelli in cui il soggetto opera per rispondere ai propri impulsi e quello in cui subentra la ricerca della moralità attraverso i fini oggettivi.

Ora, si chiede il filosofo tedesco, se partiamo dal presupposto che la capacità di formare un sistema di fini oggettivi è presente in una parte di ciascuno di noi, è possibile evitare di cadere in una sorta di soggettivismo? Questa domanda, per Scheler, affronta la questione fondamentale dell’etica del suo tempo, domanda a cui bisogna porsi di fronte in modo radicale, non c’è infatti una via di mezzo. Nonostante ciò egli ritiene non essere il suo compito dare una risposta conclusiva a tale domanda, ma di fornire esclusivamente alcune note.

Il filosofo riporta una citazione di tal Höffding: “Ma la soggettività (la coscienza), che deve essere regolata da tale principio oggettivo è sempre la base del riconoscimento di questo principio” (Lavoro ed Etica, p.102). Ciò significa che in ultima istanza è la soggettività che stabilisce il riconoscimento della giustezza oggettiva. Scheler ritiene questa posizione incomprensibile, poiché non è chiaro il perché una soggettività dovrebbe accettare qualcosa che è altro da sé, qualcosa che si oppone al contenuto della stessa soggettività. Se la soggettività è giudice ultimo dovrebbe negare la giustezza di ciò che è fuori di sé, e negare quindi il principio oggettivo, credendo di essere nel giusto. Ma così facendo, scrive il filosofo, “la soggettività dovrebbe necessariamente ingannarsi” (Ibidem). Perché?

Il motivo è chiaro, e funge da premessa, sottaciuta in un certo senso, a tutta la riflessione portata avanti finora. Per quanto si possa cercare di trarne fuori qualcosa, dalla soggettività, in ogni caso, non si tirerà mai fuori un principio oggettivo. Possiamo ritenere la soggettività come riferita ad un singolo, ad alcuni, a tutti, il risultato per Scheler sarà sempre lo stesso. Il tentativo di rinvenire un principio oggettivo nella soggettività appare al filosofo una sorta di quadratura morale del cerchio, qualcosa di impossibile. Qual è allora il modo per uscire da questa situazione di impasse?

“Finché non oltrepassiamo – scrive Scheler – la natura umana in generale alla ricerca di un principio oggettivo che valga per tutti gli uomini, alla ricerca di energie che possano portare alla luce un tale principio, non si può legittimamente parlare non solo di trovare un tale principio, ma propriamente neppure cercarlo” (Ibidem). Il tentativo di trovare allora un principio nella soggettività quindi, a ben vedere non è neppure possibile annoverarlo tra i tentativi, visto che è destinato al fallimento. Ciò che viene posto dalla natura umana, non può ritenersi migliore rispetto alla natura umana stessa; il risultato sarà sempre pari alla qualità morale della natura che lo pone. Il deterioramento della natura umana ha portato sempre un conseguente adeguamento della legge morale, proprio perché questa è stata sempre una emanazione della sua natura.

“Quanto poco un ente ha notato che è in movimento se tutto il suo ambiente si muove visibilmente e tangibilmente nello stesso senso, tanto poco un singolo potrebbe notare che diventa peggiore se il suo popolo – o un popolo, se l’intero mondo con lui diventasse peggiore, non essendo possibile, né ammissibile tanto al singolo, quanto al popolo, una vocazione a una potenza ultraumana, o in ogni caso che si elevi sopra tutti i singoli” (Ivi, p.103). Scheler ritiene dunque che la moralità è il frutto del cammino storico dell’uomo, la qual cosa significa che procede insieme alla finitudine dell’uomo.

Questo però non significa per il filosofo abbandonarsi ad un relativismo morale. Egli trae un esempio dalla situazione politica ed economica del proprio tempo. La richiesta portata avanti da alcuni di soprassedere sulla soluzione, o quanto meno di rimandare la soluzione di problemi morali determinatisi dall’intrecciarsi di economia e situazione sociale, con la motivazione che più importante sarebbe non perdere terreno rispetto alla concorrenza con le altre potenze economiche europee, e quindi rimandare al futuro tali garanzie sociali, quando queste saranno affrontate anche dagli altri, ebbene tale pretesa deve essere completamente rigettata, secondo Scheler.

Tale pretesa infatti non fa che mostrarsi legata ad un relativismo morale, secondo il quale i principi morali, giusti ed oggettivamente riconosciuti, passano in secondo piano rispetto ad altre esigenze. Vi è la necessità invece di far appello a tali principi che sono indipendenti da ogni soggettiva volontà, e cercare di farli affermare a prescindere da ogni situazionismo storico. Al filosofo appare ingiustificato il voler aspettare “astutamente” le mosse dell’altra nazione. Anche qualora si dovesse temere per una perdita di competitività rispetto ad altri stati “la coscienza di operare secondo un principio oggettivo morale e legale come la semplice fiducia nella vittoria finale di questo principio nel mondo, dà anche la forza di procedere secondo il suo comando” (Ibidem).

Altrettanto insostenibile appare a Scheler il richiamo ad un presunto “appello alla storia”, ossia una via che la storia indica ad un popolo, per criticare la sua tematizzazione dei principi morali oggettivi. Se infatti tale principio dell’appello alla storia vale per tutti i tempi, ciò significa che esso non può mai valere per un tempo determinato. Ma se la storia è finita, allora sembra lecito prendere un punto d’inizio. Ma questo non è affatto un richiamarsi ad un appello alla storia, secondo Scheler, perché tale appellarsi non può essere un principio universale, quindi non è sostenibile.

Inoltre l’argomento della storia è invalido anche perché in essa si intrecciano sempre male e bene, e ogni distinzione tra le due cose dipende sempre dalla presenza di un principio oggettivo che è presente nella vita dell’uomo. Quindi è chiaro per il filosofo tedesco che “fino a quando restiamo nella storia, fino a quando restiamo nella soggettività umana, restiamo confusi nella vivente umanità attuale” (Ivi, p.104).

Infine il ricorso alla storia sembra essere respinto anche dallo stesso Hegel, colui che più di tutti i filosofi ha fiducia in essa. Ebbene il filosofo svevo sottolinea che ciò che si può imparare dalla storia è che nessuno impara niente dalla storia. Questo perché vi è un momento individuale a cui ogni evento storico corrisponde. Quindi se si ammette che ogni momento storico ha il carattere del proprio tempo e conseguentemente il proprio compito, la cui attuazione gli spetta secondo un principio oggettivo, è chiaro che non si può mai imparare completamente dalla storia, e quindi non vi è nessuna coazione ad essere necessariamente modellati da idee storiche.

Tutto questo porta Scheler ad una conclusione già preannunciata: “Veniamo così spinti di necessità verso una grandezza trascendente, che porta con sé una legge valida per tutti gli uomini e a cui i soggetti devono aver parte nell’attuazione dei loro particolari doveri, e in primo luogo nella loro cooperazione alla formazione dei sistemi di fini oggettivi, se vogliono formarli bene – tutte condizioni alle quali soltanto, come abbiamo mostrato, il ‘lavoro’ può essere moralmente buono” (Ivi, p.105).

Non vi può essere che un principio che trascende la soggettività umana, che va oltre le situazioni contingenti, che possa fondare una legge valida per tutti gli uomini. Questi tuttavia non rimangono estranei a tale principio, secondo Scheler, essi prendono parte di questo principio, svolgono un ruolo. Come? Nella sua attuazione, come abbiamo visto. Il modo principe è quello della cooperazione nella formazione di un sistema di fini oggettivi,- solamente seguendo il quale – il lavoro diventa moralmente buono.

La conclusione del saggio è dunque un rinvio alla metafisica, la filosofia pratica trova il suo punto di sostegno proprio nella metafisica, così come era nella tradizione, come chiaramente ammette il filosofo tedesco in conclusione: “Così anche il nostro problema, come ogni autentico problema, cerca alla fine la sua autentica soluzione nella metafisica, senza la quale le dottrine etiche saranno sempre prive di un termine logico e della forza gioiosa di una fede vivente” (Ibidem).

Arrivati a questo punto è bene introdurre alcuni rilievi critici che la riflessione intorno al lavoro da parte di Max Scheler ha suscitato. È opinione di Manfred Riedel (cfr. la voce Lavoro, in Handbuch philosophischer Grundbegriffe, a cura di H. Krings, H. Baumgartner, C. Wild, ed.it a cura di G. Penzo, Queriniana, Brescia 1981, p.1113) che il triplice senso in cui la parola lavoro viene usata non è del tutto giustificato. Per ogni esempio di riferimento Scheler si riferisce all’uso del termine nel linguaggio comune; le frasi “questa macchina (o questo animale) lavora bene”, “questo scritto è un lavoro ben ponderato”, “l’insegnante assegna un lavoro ad un allievo”, ma tali affermazioni sono modi di dire metaforici, in cui in maniera non riflettuta si sono introdotte concrezioni concettuali in maniera equivoca ed anche dogmatica. Equivoca, perché non ne chiariscono affatto il senso; dogmatica, perché vengono accettate da Scheler senza che venga messa in discussione la giustezza o meno di tale assimilazione.

Sicuramente anche il fisiologo o il fisico parlano di lavoro, ad esempio parificando le azioni istintive di un animale all’attività di una macchina, così da poterle misurare, ma è lecito considerare ciò un lavoro? Il lavoro infatti, quale attività specificatamente umana, deve essere, per forza di cose, distinto da ogni attività irriflessa di un animale o meccanica. Ecco perché non è sufficiente riferirsi al linguaggio comune – con un’analisi “psico-linguistica” come quella scheleriana – per cogliere in maniera appropriata la peculiarità del lavoro, ovvero con la dovuta attenzione per le varie differenziazioni.

Riedel afferma che adoperando il linguaggio comune si corre il rischio di ripetere ancora una volta differenziazioni come quelle tra lavoro intellettuale e corporale – cosa che però, a dire il vero, Scheler cerca di evitare. Tale dicotomia del lavoro sarebbe il frutto dell’eredità cartesiana, trasposta sul piano linguistico, con l’opposizione tra res cogitans e res extensa, che non è nient’altro che l’autocomprensione dell’uomo moderno del proprio ruolo di fronte alla scienza della natura e dello spirito.

Il problema che pongono le tesi di Scheler è determinato dal non aver analizzato in modo sufficientemente critico il linguaggio quotidiano, preferendo assumerlo senza tener conto del pesante carico “ideologico” che l’uso linguistico porta continuamente con sé. Inoltre insufficiente appare a Riedel anche l’analisi sulla logica interna del linguaggio intorno ai temi del lavoro. Ma anche la critica operata nei confronti delle ideologie che sottendono alle teorie economico-politiche di Smith e di Marx mostra, ancora per Riedel, l’incapacità da parte di Scheler di riuscire a venire fuori dalla propria “ideologia politica”, ed in questo senso mostrerebbero una sorta di cecità filosofica.

La curatrice italiana del testo di Scheler non appare convinta della critica di Riedel, se non altro perché Scheler prosegue un itinerario di analisi psicolinguistica che non è sicuramente improvvisato. Egli infatti si richiama espressamente agli studi di Meinong e von Ehrenfels, i quali, pur seguendo un pregiudizio psicologistico, furono attenti studiosi della categoria economica del valore (cfr. D. Verducci, Lavoro e filosofia in Max Scheler, in Lavoro ed Etica, cit., p.20).

Al di là di tali problemi, ciò che ci interessa domandare è se la riflessione di Scheler sul lavoro, e soprattutto se il rapporto che egli configura del lavoro con l’etica sia oggi ancora proponibile nei termini presentati nel suo breve saggio. Per fare ciò volgeremo lo sguardo più avanti, a quanto la filosofia ha detto a proposito del lavoro nel secolo successivo, quello dell’età post-metafisica – ricordiamo che il saggio di Scheler fu scritto alla fine dell’Ottocento.


Theorèin - Dicembre 2005